Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non accoglie le dimissioni del presidente del Consiglio, Mario Draghi – che di fatto hanno aperto la crisi di governo – e lo invita “a presentarsi al Parlamento per rendere comunicazioni, affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata a seguito degli esiti della seduta svoltasi presso il Senato della Repubblica”. Una scelta, quella compiuta ieri sera dal capo dello Stato, che si inserisce in un contesto di “totale identità di vedute” con il premier dimissionario, come ha voluto precisare l’ufficio stampa del Quirinale, per stroncare sul nascere le voci di posizioni diametralmente opposte tra i due.
In realtà, scorrendo la lunga storia delle crisi di governo, si scopre che la scelta compiuta da Mattarella non rappresenta un inedito, ma trova numerosi precedenti, anche se da collocare in momenti, fasi storiche e processi politici completamente diversi e con esiti che talvolta hanno portato alla conferma delle dimissioni da parte del premier. Esiste poi anche un caso in cui al no alle dimissioni da parte del capo dello Stato ha fatto seguito non il rinvio in Parlamento, ma lo scioglimento delle Camere.
Già il 22 giugno del 1957, l’allora presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, non accoglie le dimissioni del presidente del Consiglio, Adone Zoli, e lo invita, insieme al governo, “a presentarsi al Parlamento per chiedere di poter iniziare senza ritardo, insieme con l’esame dell’esercizio provvisorio e dei bilanci, l’attuazione legislativa del programma da lui sottoposto alle Camere”. In questo caso la scelta del capo dello Stato non è immediata, ma dopo essersi inizialmente riservato di decidere, quando il 10 giugno precedente il premier si presenta dimissionario.
Nel 1959, sempre presidente Gronchi, si determina una situazione che da un punto di vista procedurale rischia di avvicinarsi rispetto a quanto sta accadendo in queste ore. Il 3 febbraio il capo dello Stato, dopo aver constatato che “nessun orientamento, non soltanto prevalente, ma neppure sufficientemente concreto” è emerso dalle consultazioni, “poiché le dimissioni del presidente del Consiglio” Amintore Fanfani, presentate il 26 gennaio, “non furono provocate da un formale voto di sfiducia da parte del Parlamento, dopo matura riflessione”, ritiene “opportuno” respingerle, “invitando il Governo a presentarsi senza indugio al Parlamento per chiederne la fiducia”.
Il giorno dopo Fanfani chiede al capo dello Stato “di consentirgli un riesame della situazione e di dare una definitiva risposta nel più breve tempo”. Ma il 5 febbraio, “con suo vivo rammarico” e senza un ritorno in Parlamento, comunica al presidente della Repubblica di non “poter recedere dalle dimissioni”, illustrando “i motivi anche personali che lo inducono a questa decisione”.
Si arriva al 1960 e alle dimissioni l’11 aprile del presidente del Consiglio, Fernando Tambroni, dopo che i ministri della sinistra Dc hanno lasciato il suo governo. Al termine delle consultazioni Gronchi, il 23 dello stesso mese, “in considerazione del fatto che l’attuale ministero ha già ottenuto la maggioranza costituzionale alla Camera dei deputati, non accogliendo le dimissioni”, invita “Tambroni ed il Governo da lui presieduto a presentarsi senza indugio al Senato della Repubblica per gli adempimenti prescritti dall’articolo 94 della Costituzione”. L’esecutivo ottiene la fiducia ma riesce a rimanere in carica soltanto fino al luglio successivo.
Il 13 giugno del 1974, nel corso della crisi del quinto governo guidato da Mariano Rumor, il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, “ultimate le consultazioni, di fronte alla gravità della situazione economica e alla riconosciuta necessità dell’adozione delle iniziative necessarie che valgano ad agevolare, senza ulteriori indugi, la ripresa economica, non accoglie le dimissioni del Governo e lo invita, nel superiore interesse del Paese, a voler compiere ogni sforzo per realizzare un accordo”. Il capo dello Stato non chiede un confronto parlamentare, tuttavia il 27 giugno Rumor riferisce alle Camere sulla crisi, ottenendo il rinnovo della fiducia.
L’11 novembre del 1982 si presenta una situazione che in qualche modo rischia di diventare un precedente rispetto a quanto si sta vivendo in queste ore. Il presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, dopo la ‘lite delle comari’ tra i ministri delle Finanze, Rino Formica, e del Tesoro, Beniamino Andreatta, decide di dimettersi, ma il capo dello Stato, Sandro Pertini, non accoglie le dimissioni e lo invita “a riferire in Parlamento sulla condizione istituzionale e politica del Governo”. Il giorno dopo, tuttavia, il premier conferma le dimissioni di fronte al Parlamento.
Si arriva all’ottobre 1985 con la cosiddetta crisi di Sigonella e con una serie di passaggi particolarmente complessi. Il 16 il Partito repubblicano decide di ritirare i ministri dal Governo, tra i quali quello della Difesa, Giovanni Spadolini. Dapprima il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, informa il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, della volontà di riferire in Parlamento. Quindi, dopo il dibattito, il 17 si presenta dimissionario al Quirinale.
Il capo dello Stato come da prassi si riserva di decidere, avvia le consultazioni e il 21 reincarica Craxi, ma alla fine si arriva alla conferma dello stesso Governo. Il 31, infatti, Craxi riferisce “di avere accertato, sulla base delle intese e dei chiarimenti intervenuti tra i Gruppi politici della maggioranza, una confermata convergenza volta a proseguire la collaborazione di Governo dalle stesse forme di alleanza parlamentare” e di “avere altresì accertato che i Gruppi di maggioranza ritengono a tal fine adeguata l’attuale struttura di Governo”. Quindi rimette “al Capo dello Stato l’incarico di formare un nuovo Governo”.
A quel punto Cossiga, “sciogliendo la riserva precedentemente formulata”, respinge “le dimissioni del Governo” e rivolge al presidente del Consiglio “l’invito a presentarsi rapidamente al Parlamento, anche in considerazione delle rilevanti scadenze istituzionali relative all’esame della legge finanziaria e del bilancio”.
Diverso il contesto nel quale il primo aprile del 1987, Cossiga, dopo il fallimento degli incarichi affidati a Giulio Andreotti e Nilde Iotti, respinge “le dimissioni del Governo” guidato da Craxi e lo ha invita “a presentarsi al Parlamento”. Il premier decide di recarsi al Senato l’8 aprile, ma il giorno prima i ministri della Dc si dimettono. Craxi va comunque in Senato e al termine del dibattito si presenta nuovamente dimissionario al Quirinale.
Sempre nel 1987, esattamente a novembre, si ripete il copione che nel 1985 aveva portato alla conferma di Craxi a Palazzo Chigi. Stavolta il premier è Giovanni Goria, che si dimette il 14 di quel mese dopo l’uscita dalla maggioranza del Partito liberale. Cossiga lo reincarica e 4 giorni dopo, una volta verificata la possibilità di proseguire con la stessa maggioranza e la stessa compagine ministeriale, respinge le dimissioni e lo invita a presentarsi “rapidamente al Parlamento, anche in considerazione delle rilevanti scadenze istituzionali relative all’esame della legge finanziaria e del bilancio e di quelle derivanti dai risultati delle consultazioni referendarie” in materia di nucleare e giustizia.
Una nuova crisi del Governo Goria, porta alle dimissioni del premier il 10 febbraio del 1988, respinte poi da Cossiga il 13 con rinvio in Parlamento dell’Esecutivo, che ad aprile passa comunque la mano a quello guidato da Ciriaco De Mita.
Rappresenta un unicum nella storia della Repubblica finora quanto accade nel gennaio del 1994. Il 13 il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, dopo il dibattito si presenta dimissionario e il 16 il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, respinge le dimissioni e, “sentiti i presidenti delle due Assemblee, ai sensi dell’articolo 88 della Costituzione”, firma “il decreto di scioglimento della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, controfirmato dal presidente del Consiglio dei Ministri”. Un precedente che potrebbe tornare attuale in queste ore, qualora Draghi decidesse di confermare le dimissioni dopo le comunicazioni al Parlamento.
Sempre Scalfaro, il 30 dicembre del 1995, non accoglie le dimissioni del premier Lamberto Dini e lo invita “a presentarsi al Parlamento, che è la sede propria di ogni chiarimento politico”. Quell’Esecutivo tecnico ha comunque esaurito il suo compito e nella primavera del 1996 si andrà al voto.
In occasione della prima crisi del Governo Prodi, dopo le dimissioni del professore presentate il 9 ottobre del 1997, sempre Scalfaro, il 14, una volta che il premier gli comunica l'”avvenuta ricomposizione della maggioranza di Governo” le respinge e invita “il presidente del Consiglio a presentarsi al più presto alle Camere, anche in considerazione dell’esigenza di una immediata ripresa dell’attività del Governo e del Parlamento”.
Il 17 aprile del 2000, all’indomani della sconfitta alle elezioni regionali, il presiedente del Consiglio, Massimo D’Alema, presenta le dimissioni al Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, che non le accoglie, invitando il premier “a presentarsi al Parlamento, che è la sede propria di ogni chiarimento politico”. E da quel confronto, una settimana dopo, si arriverà alla nascita del secondo Governo guidato da Giuliano Amato.
Infine un’altra crisi rientrata del secondo Governo Prodi, che si presenta dimissionario il 21 febbraio del 2007. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si riserva di decidere e il 24 respinge le dimissioni del Governo e invita il premier “a presentarsi al più presto al Parlamento, per verificare la sussistenza del rapporto fiduciario”. (di Sergio Amici)