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2 febbraio 2022

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GIUDIZI UNIVERSALI: «IL SANREMO SECONDO AMADEUS- ATTO III» di Gianlorenzo Franzì


Vedete che Sanremo è importante?

Era il febbraio del 2020 quando una delle preoccupazioni sociali e culturali più grandi era capire i retroscena e svelare la vera essenza del Bugogate, con i meme su Morgan (“che succede?”) e i due testi -uno pubblico, uno misterioso e improvvisato- di Sincero, il brano portato al Sanremo Secondo Amadeus Anno I.

Ora invece siamo qui, a sentire i piagnistei di chi lancia strali contro l’Ariston e la messa in scena di uno spettacolo che, in un modo o nell’altro, è il rito -musicale- laico della tv italiana, dopo essere (ma anche probabilmente: prima di tutto) uno dei più grossi business del piccolo schermo; strali dovuti al fatto che poco dopo Sincero è iniziato quell’incubo di cui oggi forse intravediamo la conclusione, incubo nel quale l’industria musicale e culturale in generale è stata messa in ginocchio.

Perché a Sanremo cantano e noi operatori nei club no?: è la domanda che si pongono i dietrologi tuttofare sui social, dimenticando che la Mostra del Cinema di Venezia non ha subito neanche una battuta di arresto durante la pandemia, mentre le sale continuavano ad incassare colpi bassi invece che denaro, e nessuno degli operatori di quel settore là si è sentito in dovere di lanciarsi contro il Festival cinematografico più blasonato del mondo.

Ma tant’è.

Ad ogni modo.

Sanremo Secondo Amadeus Anno III: ovvero, la coazione a ripetere di nietzschiana memoria, l’eterno ritorno dell’uguale. Per il grande filosofo, era quel “processo incoercibile e di origine inconscia per cui il soggetto si pone attivamente in situazione penose, ripetendo così vecchie esperienze senza ricordarsi del prototipo”: per noi, la peggiore fine che una direzione artistica sanremese potesse dare. È vero che non c’è due senza tre: ma è pur vero che i saggi (Fabio Fazio, Carlo Conti, Claudio Baglioni) hanno saputo abbandonare la nave un attimo prima che affondasse, quindi nella gloria. La direzione artistica di Amadeus ha saputo dare una verniciata nuova ma soprattutto, non dimentichiamolo, portare a casa un successo quando davvero nessuno gli avrebbe dato due cent, ovvero il Sanremo Secondo Amadeus Anno II in pieno lockdown: una persona accorta e intelligente come lui avrebbe però dovuto scansare le lusinghe e le richieste e rinunciare al terzo mandato, consapevole che se ti è andata bene due volte non devi rischiare la fortuna una terza.

Il problema è che, almeno la prima serata, tendenzialmente e storicamente la più seguita, è stata piuttosto fiacca come show, e almeno per tre fattori.

Uno: la co-conduzione.

Affidata ad Ornella Muti, che a detta del direttore in quanto attrice doveva occupare il palco del’Ariston per rispetto vero le categorie più bastonate dal Covid (gli attori). Lodevolissimo, a patto di mettere un’attrice simpatica. La Muti non ha mai brillato per comunicativa, e la sua serata su RaiUno lo dimostra: ripete stancamente un copione telefonatissimo, non si sbilancia mai, anche quando sbaglia sembra sbagliare perché sta scritto sul gobbo. Senza dire, per non sparare sulla Croce Rossa, che l’intervista (intervista?) sui suoi successi è stato un momento di raro imbarazzo: una sfilza di nomi di grandi autori che, con tutto il rispetto per loro, hanno sfornato insieme all’attrice romana le loro cose più dimenticabili. Il Primo Amore di Risi, La Ragazza Di Trieste di Festa Campanile, Stregati di Nuti, Il Viaggio di Capitan Fracassa di Scola (con Troisi), Domani della Archibugi, To Rome With Love di Allen: il classico elenco della spesa per il quale la bellissima Ornella non ha speso una parola emotivamente coinvolgente, non ha rievocato un ricordo sapido, preoccupata solo di mettere in risalto che lei si che ha lavorato con i grandi registi del cinema italiano. Dimenticando (colpevolmente, lo sappiamo) i suoi due più grandi successi al botteghino, Innamorato Pazzo e Il Bisbetico Domato (entrambi di quei due grandissimi artigiani del grande schermo che erano Castellano & Pipolo, entrambi con Celentano): pareva proprio brutto parlare del suo amante degli anni Ottanta.

Due: il ritmo.

Che questa volta, nonostante Fiorello, ha latitato. O meglio, anche in assenza di pause morte è stato uno spettacolo che è sembrato durare il doppio delle sue già lunghe cinque ore. Nessun fremito, nessun detour che potesse dare vitalità a quello che sembrava un corpo morto, quest’anno neanche un piccolo gossip che sia uno: anche le lacrime di Damiano -che con i Maneskin sono tornati trionfalmente ad un anno dalla vittoria alla faccia di chi gli vuole male, e che ha cantato una delle tracce più belle del loro Teatro D’Ira, ovvero Coraline- ha pianto quelle che erano senza ombra di dubbio lacrime finte. Menzione d’onore solo alla felice battuta di Fiore contro i no-vax, i loro poteri occulti e la grafite.

Tre: le canzoni.

Che poi dovevano essere il punto Uno, ma si sa: dulcis in fundo.

Anche qua, dopo tre anni era davvero improbabile che Amadeus riuscisse a dare un ritratto della contemporanea scena musicale e insieme portare belle canzoni. In attesa della seconda sfornata, la prima dozzina ha presentato un livello bassino.

Apre le danze Achille Lauro, che speriamo non credesse davvero di stupire presentandosi a petto nudo e sfiorandosi ancora una volta il pacco con gridolini ammiccanti. Gli oh dio si si stanno a Lauro come gli urletti stanno a Michael Jackson. Ma uno era Michael Jackson. Domenica, il suo brano con spruzzate gospel, uno stanco plagio di sé stesso e della già traballante Rolls Royce.

A seguire, dal basso, Ana Mena e Duecentomila lire. Che forse voleva essere la versione guappa di Bang Bang, ma invece il risultato è una cosetta neomelodica che puoi sentire ai Quartieri Spagnoli un paio di minuti prima che ti rubino la catenina. Alla fine, ci si aspettava legittimamente che dedicasse la sua canzone al padre ingiustamènt carcerat’.

Con tutto l’affetto che proviamo per lui, e il debito emotivo verso la sua produzione musicale, ha destato meraviglia vedere Massimo Ranieri, vero e proprio outsider, cantare la pure carina Lettera Di Là Dal Mare stonando come una campana, o come uno Rkomi qualunque: che pure stupisce, perché è incredibile poi come con la sua canzonetta (Insuperabile, nomen omen) abbia puntato direttamente all’ultimo posto.

Il primo posto della classifica provvisoria formata con i voti della sala stampa se lo sono però aggiudicati Mahmood & Blanco: il primo carismatico come sempre, anche con un pezzo -Brividi- non proprio convincente ma perfetto per quella new wave del pop italiano, il secondo inspiegabilmente con un mantello che gli stava cadendo e che comunque ha levato mentre cantava.

Giusy Ferreri ha invece il pregio di spiazzare: classico tormentone romantico-latino che si fonde con un bolero, quasi ad essere in un melò almodovariano. Più che altro,m un ritorno alle atmosfere vintage degli esordi che sembrava purtroppo aver dimenticato con le sue ultime derive dance. Miele fa la sua bella figura. Arrivata decima, vabbè.

Al secondo posto però svetta La Rappresentante di Lista con Ciao Ciao. Veri e propri schegge impazzite di questo Festival (dopo aver trionfato lo scorso anno con la pure bellissima Amare), il talento di Veronica e Dario sta nel trasformare concetti complicati e suoni ricercati in qualcosa di originale, comprensibile e soprattutto estremamente funzionale e coinvolgente. Ciao Ciao non ha filtri né retorica, solo un sound esplosivo che ricorda addirittura i migliori Matia Bazar degli anni d’oro.

Per oggi è tutto. Con le mani, con i piedi, con la testa, con il culo: ciao ciao.

Gianlorenzo Franzì 

 

 

 


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