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18 marzo 2017

News

La storia surreale del voucher «che toglie dignità al lavoro»


Istituiti dalla legge Biagi nel 2003 allo scopo di semplificare l’ingaggio per i «lavoretti», i buoni-lavoro hanno incominciato a essere fruibili effettivamente dal 2008, anno in cui ne furono utilizzati soltanto mezzo milione.

Da allora l’uso dello strumento ha fatto registrare un aumento esponenziale, apparentemente correlato più con la diffusione della sua conoscenza da parte degli utenti che con le modifiche legislative entrate in vigore nel 2010, 2012 e 2015: le vendite si sono quintuplicate già nel secondo anno: 2,7 milioni nel 2009; poi sono passate a 9,7 milioni nel 2010, a 15,3 nel 2011, a 23,8 nel 2012, 40,7 nel 2013, a 68,5 nel 2014, a 108 nel 2015 e a 134 nel 2016.

Quest’ultimo dato dei 134 milioni di buoni-lavoro venduti nel 2016 ha indotto la Cgil a denunciare una pretesa «evidenza della diffusione abnorme di questa forma di lavoro».

In realtà, se si considera che in Italia le ore di lavoro complessivamente svolte nel 2016 sono state poco meno di 43 miliardi, ci si convince facilmente che il lavoro retribuito con i voucher è stato anche nell’ultimo anno una frazione minuscola, al massimo lo 0,3 per cento.

Nessuno può sostenere ragionevolmente che questo «zerovirgola» di lavoro accessorio costituisca l’evidenza di una sua diffusione abnorme, cioè del fatto che abbia sostituito una quantità rilevante di lavoro che altrimenti si sarebbe svolto nella forma ordinaria.

È certo che qualche abuso si sia verificato; ed è pure plausibile che in qualche caso l’ingaggio con i voucher abbia sostituito lavoro regolare; ma è altrettanto ragionevole pensare che nella parte di gran lunga maggiore dei casi questa forma di ingaggio abbia consentito, invece, di svolgere in modo trasparente, e con copertura contributiva, del lavoro che altrimenti sarebbe stato inghiottito dall’economia sommersa o non avrebbe potuto neppure svolgersi.

Logica vorrebbe, dunque, che prima di por mano a una drastica restrizione della possibilità del suo utilizzo si studiasse il fenomeno, per stabilire dove i buoni-lavoro abbiano prodotto effetti desiderabili, dove no e in quale misura: solo in questo modo si possono correggere le regole che lo disciplinano, in modo da tagliare solo la parte cattiva salvando quella buona.

Se la Cgil rifiuta questo modo di procedere è perché considera lo strumento dei buoni-lavoro come cattivo in sé, indipendentemente dal fatto che consenta l’emersione di lavoro nero o l’attivazione di lavoro che altrimenti non ci sarebbe del tutto: i voucher vanno aboliti perché sono «la forma estrema della mercificazione del lavoro», perché permettono «la degradazione del lavoro, [sono] l’ultimo gradino della precarietà» (Susanna Camusso su la Repubblica del 14 marzo).

Semplificazione e dignità del lavoro
Impostata così, la questione posta dalla Cgil non può evidentemente essere oggetto di una discussione pragmatica, suscettibile di risolversi individuando e misurando gli effetti pratici negativi dei voucher e quelli positivi. Per altro verso, quella che così viene posta è una questione cruciale per la politica del lavoro nel nostro paese.

Il sindacato guidato da Susanna Camusso considera sbagliata quella gran parte della legislazione dell’ultimo ventennio che, dalla legge Treu del 1997 in poi, è stata orientata alla semplificazione della disciplina applicabile e degli adempimenti burocratici necessari per la costituzione del rapporto di lavoro dipendente.

Se si entra nell’ordine di idee che «semplificazione equivale a riduzione del valore del lavoro», è facile capire perché l’abbattimento dei costi di transazione sia ritenuto incompatibile con la dignità del lavoro, anche quando si tratti di un lavoro accessorio, occasionale, di breve durata.

È meno facile capire perché il governo si stia orientando a seguire la Cgil su questa strada, progettando un divieto drastico di utilizzare i voucher per le imprese e, quanto alle famiglie, vietandone l’uso per l’ingaggio di persone che abbiano più di 24 anni e non siano pensionati o disabili.

La sola spiegazione possibile sta nell’intendimento di evitare a tutti i costi un referendum nel quale il merito della questione conterebbe pochissimo, perché sarebbe probabilmente travolto dal vento anti-establishment, che oggi soffia forte in Italia e non solo.

Il governo, però, può correggere gli effetti dell’intervento, senza comprometterne l’obiettivo politico: se si vieta alle imprese l’uso dei voucher, si può e si deve consentire loro almeno di soddisfare le esigenze di lavoro occasionalmente ricorrente (assistenza a congressi, assistenza al pubblico in occasione di eventi sportivi, rafforzamento del personale di vendita in periodo natalizio, per esempio) utilizzando il contratto di lavoro intermittente, il cosiddetto job on call.

Il decreto n. 81/2015 ne aveva drasticamente ridotto lo spazio proprio in considerazione dell’ampliamento di quello dei voucher: logica vorrebbe, se non si vuole vietare di fatto il lavoro accessorio, che ora si proceda in senso inverso.
Pietro Ichino
Docente universitario, senatore del Partito democratico
(tratto da lavoce.info)


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