Tracciabilità-e-sicurezza-delle-carni-in-Italia
8 giugno 2016

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La tracciabilità delle carni in Italia garantisce qualità e sicurezza


Nonostante la complessità dell’attuale sistema agroalimentare e la maggiore difficoltà nel realizzare efficaci sistemi di tracciabilità e di controllo in un mondo dai commerci sempre più globalizzati, ci sono ancora sistemi semplici, in cui i prodotti vengono realizzati in filiera. Questo succede spesso nel settore delle carni, in cui gli attori della filiera sono maggiormente integrati ed è possibile un controllo diretto e completo dei sistemi di produzione sia agricoli che industriali.

La gestione in filiera minimizza i rischi e semplifica la realizzazione di efficaci piani di controllo, in quanto consente una più agevole comprensione dei dati di qualità e sicurezza alimentare, generalmente più dettagliati rispetto alle prescrizioni minime di legge; ma anche un maggior controllo degli standard di prodotto rispetto alle aspettative del consumatore. In Italia, si stima che circa il 40% della carne bovina e di quella suina siano prodotte in filiera, mentre per la carne avicola la produzione in filiera è pressoché totale.

Quando si parla di tracciabilità delle carni, i principali controlli riguardano davvero l’intera filiera: si parte dalla produzione dei mangimi, incluse le analisi sulle materie prime e sugli alimenti dati agli animali; in seguito si effettua un costante controllo della corretta gestione dell’allevamento e del rispetto delle norme sul benessere animale, molto importanti anche in fase di macellazione e di lavorazione della carne, insieme ovviamente al rispetto delle norme sanitarie; si hanno poi la distribuzione e la «catena del freddo» che, oltre alla verifica delle giuste temperature per la conservazione dei prodotti, includono controlli di tipo qualitativo.

Tutte le filiere delle carni, negli ultimi decenni, hanno aumentato o migliorato i controlli, ma quella in cui questi si sono fatti più rigidi è sicuramente quella bovina. L’indicazione dell’origine sull’etichetta è infatti obbligatoria per le carni bovine fresche in tutta Europa. In Italia ancora una volta si è andati oltre: già dal 2000 è stata infatti introdotta l’anagrafe bovina che ha contribuito a potenziare in maniera efficace l’attendibilità delle informazioni di origine legate al sistema obbligatorio di etichettatura della carne previsto dal reg.(CE) 1760/2000.

Inoltre, a partire dallo stesso anno è stata potenziata l’anagrafica degli stabilimenti che lavoravano dette carni, prevedendo stringenti misure di gestione (distruzione) dei materiali a rischio specifico di BSE. Alcune di tali misure sono state recepite a livello Ue l’anno successivo, nel 2001, imponendo in particolare a livello comunitario il divieto di vendita, già vigente in Italia, di alcune parti anatomiche a rischio BSE.

Per quanto riguarda le carni suine, con il regolamento di attuazione è stato introdotto l’obbligo di indicazione del Paese in cui l’animale è stato allevato e macellato, norma che permette così di individuare anche lo Stato in cui l’animale ha passato almeno gli ultimi 4 mesi di allevamento, o il periodo dal momento in cui ha raggiunto i 30 kg di peso.

Nel caso della filiera avicola, invece, dal 2004 i produttori hanno potuto scegliere di utilizzare un sistema di etichettatura volontaria delle carni per fornire al consumatore informazioni aggiuntive sui prodotti quali origine, sistema di allevamento e tipo di alimentazione. Questa etichettatura, scelta già a suo tempo dalla quasi totalità dei produttori nazionali, dal dicembre 2014 è diventata obbligatoria per tutti.

Nonostante si possa pensare il contrario, soprattutto a causa degli scandali che di tanto in tanto vengono riportati dai mass media (a conferma del fatto che i controlli ci sono, e funzionano), si può dire veramente che il modello italiano di tracciabilità delle carni è un’eccellenza a livello europeo, e quindi mondiale. In ogni punto della filiera, infatti, il nostro sistema di controlli garantisce una qualità e una sicurezza impensabili in molti altri contesti.

Per quanto riguarda i controlli sanitari nelle stalle, ne sono effettuati migliaia ogni giorno e riguardano ogni singolo punto della filiera. Ci sono ad esempio controlli costanti della salmonella negli allevamenti avicoli, ci sono visite incrociate dei veterinari della Usl, dei Carabinieri che fanno capo al Ministero agricolo, o di quelli per la tutela della salute o dei Nas. Ci sono poi il Corpo Forestale, i tecnici dell’associazione allevatori e così via.

Certo, c’è purtroppo anche chi a volte non rispetta le regole, fra gli allevatori, ma nella maggior parte dei casi questi sono appunto smascherati dai controlli. Che ci sono, non dimentichiamolo mai: in stalla, nei macelli, nei punti vendita. Lo dicono le cronache.

E a proposito di cronache, si è fatto un gran parlare in queste ultime settimane di somministrazione di antibiotici negli allevamenti. Cogliamo l’occasione per ripeterlo ancora una volta: gli antibiotici non possono essere e non vengono somministrati preventivamente (pratica vietata in tutta Europa), ma soltanto nei casi di effettiva necessità e sotto controllo veterinario. Quando somministrati, inoltre, si deve rispettare il cosiddetto «periodo di sospensione», ossia il tempo necessario all’animale per smaltire l’antibiotico eventualmente assunto.

Nelle carni che in Italia finiscono sulle tavole dei consumatori, insomma, è praticamente impossibile trovare traccia di antibiotici.
(Fonte: Assocarni)


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