castagna
13 febbraio 2018

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Lettera alla Calabria


Ho deciso di scrivere questa lettera alla mia terra dopo tanti ripensamenti. Ma dato che mancano pochi mesi al giorno che dovrò lasciare il mio paese, vorrei esprimere le ultime considerazioni sulla mia vita vissuta in questa nostra bellissima, ma violentata, Calabria.

Ho sempre amato in modo viscerale il mio paese (Carlopoli e Castagna per non creare malintesi e inutili campanilismi) ho sempre pensato di essere stato fortunato di vivere in questi luoghi. Ho girato molto nella mia vita, in Italia e anche all’estero; posso garantire che i nostri posti non avrebbero niente da invidiare ad altri di rinomata bellezza.

Qui a Castagna, il mio paese, ho costruito la mia casa, mi sono sposato e ho formato la mia famiglia. Fino a qualche anno fa avevo un lavoro, vivevamo felici col poco che io riuscivo a guadagnare, ma ci bastava per tirare avanti la famiglia.

Coltivavo l’orto, avevo i miei hobby, tanti amici con cui condividere il tempo libero. Poi un giorno mi accorsi che nella mia salute c’era qualcosa che non andava: avevo sempre le mani gonfie e doloranti. Feci gli esami clinici e appresi di essere affetto da artrite reumatoide.

Questa malattia mi portò, dopo alcuni anni di sofferenze, a dover rinunciare al mio lavoro da operaio edile; per mia difesa e per quella degli altri decisi di appendere al muro il mio martello.

Nulla sarebbe cambiato se avessi trovato un’altro lavoro adeguato alle mie capacità fisiche, ma questo non è avvenuto poiché le situazioni territoriali in cui vivo non offrono possibilità di lavoro; la crisi purtroppo ha desertificato e fatto chiudere la maggioranza di quei pochi settori produttivi esistenti, lasciando senza possibilità d’inserimento nel lavoro tanti giovani, figuriamoci io che ho 53 anni; età in cui, purtroppo, vieni considerato troppo vecchio per essere assunto, ma troppo giovane per una pensione.

Così sono rimasto con le mosche in mano, in uno stato di smarrimento che non avevo mai conosciuto: senza un lavoro, malato e privo di speranze.

Ma si doveva andare avanti, non si poteva cedere alla catastrofe. Mia moglie ha preso in mano la situazione ed è partita per il Friuli contando sull’unica possibilità che avevamo: la sua abilitazione all’insegnamento avendo conseguito un diploma magistrale. Si è trasferita al Nord per fare la precaria nella scuola primaria.

Sono passati 5 anni da allora: nel frattempo la mia famiglia si è spaccata nettamente in due parti: mia figlia piccola prosegue gli studi al nord e vive con la madre, mia figlia grande, con me in paese. Ora tra pochi mesi lei sì diplomerà e non ci saranno più i presupposti per rimanere divisi.

La mia famiglia si unirà di nuovo e dovremo lasciare la Calabria, definitivamente.

Da quando mi sono sposato non avevo mai considerato di lasciare la mia terra, non potevo certo pensare d’intraprendere la via che prese mio padre, emigrato, per quel lavoro tanto agognato che gli consentiva di far sopravvivere la sua famiglia, ma che lo teneva lontano da noi per molto tempo.

Come nella tragedia greca, se c’è una colpa dei padri deve ricadere sui figli, devo anch’io scontare la colpa di essere nato in questi luoghi. Ho l’amaro in bocca a dire queste cose, certo ci sarà un motivo perché queste situazioni avvengono.

Pensare che molti giovani devono lasciare ancora oggi la Calabria perché non trovano lavoro, è come sentire le ferite degli animi di quei padri ancora aperte, il dolore della nostra infinita sconfitta.

Infinita, come le tante espropriazioni di dignità che ci portiamo addosso da secoli, infinita per aver creduto che le cose qui ancora potevano cambiare. Invece no! mi rincresce dirlo ma le cose credo non cambieranno mai.

Il nostro dolore, la nostra sconfitta è impressa nei cuori e nel nodo alla gola di chi lascia la sua terra. La colpa, di chi è la colpa? Forse della politica che non ha saputo crearsi gli anticorpi contro la cultura mafiosa?

Con essa si è garantita la stirpe e l’espropriazione indebita di un potere basato sul voto estorto, per avere e godere della garanzia del privilegio. Con essa si è santificata nella grandezza della casta, nell’onnipotenza del potere acquisito col raggiro; potere che gli permette di avere le mani libere sulla gestione di fiumi di denaro e decidere su appalti, gabelle, e tangenti.

Nella protezione dei ruoli, ognuno avrà la sua parte, contando nel silenzio assordante di un popolo prostrato all’omertà. Infinita sconfitta, ferita aperta nel concedere il benemerito a tante famiglie mafiose di spartirsi la Calabria, di tenere al giogo interi territori.

Infinita sconfitta, ferita aperta nel gioco scorretto sui destini di migliaia di persone, di quei tanti laureati che potrebbero cambiare in meglio il volto della nostra regione.

Ragazzi come F. U. che ha seguito l’evolversi della mia artrite; che aveva idee e determinazione per intraprendere una sua ricerca su questa malattia, ma al noto Ospedale dell’Università la sua ricerca non ha trovato la giusta fiducia, il meritato credito.

Così se n’è andato, per finire in Inghilterra, dove invece hanno apprezzato le sue idee e sponsorizzato la sua ricerca.

F.U. a rappresentare le migliaia di giovani menti che ogni giorno lasciano la Calabria alla ricerca di un sogno. Sconfitta, ferita aperta.

La decadenza del nostro Ospedale di Montagna, ridotto all’osso per volontà politica, piegato all’ordine di un risparmio deleterio e ingiusto; privato di reparti essenziali, vitali per il bacino delle tante utenze di tutto il nostro territorio.

Ospedale che anni fa era fiore all’occhiello e che oggi è scarnito fino al punto che se va in pensione qualcuno dell’accettazione chiudono il laboratori delle analisi.

Infinita sconfitta, ferita aperta. Ormai divenuta cancrena, decomposizione sociale nell’entroterra calabrese, dove il patrimonio dei piccoli paesi, non reggono più il peso del loro abbandono. Dove le case chiuse o diroccate cedono il passo al tempo e alle intemperie, e sono più di quelle abitate, dove in tante vie stanno già crescendo le ortiche e i rovi.

Infinita sconfitta per noi ancora vivi, mentre assistiamo disarmati alla scomparsa di tanti anziani che continuano a morire a catenella; sconfitta per noi nel vedere che nelle loro case non entrerà più vita; dopo di loro, il vuoto, lo smarrimento di tanti figli, la mancanza di quel piccolo aiuto che gli davano le loro pensioni.

Ferita aperta per tanti di questi uomini e donne ancora rimasti, costretti a prodigarsi in piccoli lavoretti; 5 euro all’ora ad una madre di famiglia per pulire qualche casa o 20 al giorno per fare la badante. Mentre tanti uomini restano sospesi tra la birra al bar e una promessa di qualche giornata di lavoro, e poi costretti molte volte a prostrarsi per bisogno all’offerente di turno di spregiudicata inclinazione. Ferita che non può guarire è la nostra, cosparsa di sale, infetta dall’indifferenza.

Infinita sconfitta, la nostra lenta agonia. Nella cultura del silenzio omertoso si continuerà a bruciare i nostri boschi, a riversare veleni in mare.

Infinita sconfitta, nell’immondizia di ogni genere lasciata ai bordi delle strade, nei boschi, nei fiumi. Ferita aperta che non guarisce, terra che sanguina, diverrà putrida sotto il velo nero della nostra infinita sconfitta.

Terra mia, speriamo che un giorno potrò dire che mi sono sbagliato, che avrai vinto sulle tue sconfitte e che le tue ferite aperte sono state guarite.
Paolo Arcuri


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