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8 gennaio 2018

News

Lettera aperta. All’Utic di Lamezia c’è davvero una équipe che non si risparmia


Sono le tre di notte di mercoledì 3 gennaio, il sonno non arriva, complice un’indigestione che dura ormai da dopo cena. Mi alzo, forse un po’ di Brioschi risolve la cosa, mentre mando giù l’acqua fredda piomba nello stomaco come cemento, sudori freddi, l’anima va via dal corpo, un tonfo sordo sul lastrico dove la testa batte violentemente.

Sono attimi convulsi, mia moglie ha sentito il tonfo, è la prima a soccorrermi, non ti accorgi del tempo che passa e davanti noti le tute rosse del 118 di Soveria persone che conosco, sono lesti nel fare e pazienti nei modi.

Esami veloci, un ecg che non da segni rilevanti, ma che non convince del tutto il medico. Il quadro impone il trasferimento a Lamezia Terme, si vuole capire se alla base c’è un problema cardiaco in atto.

Sono le 3 e mezza e l’ambulanza raggiunge Lamezia nei tempi previsti. Qui al pronto soccorso mi viene praticato un ecg e un ecocardio. Nulla fa pensare al peggio, intanto si attendono i risulati sulle troponine, l’esame più rilevante per capire se un’ischemia o un infarto sono alla base del problema. Dopo un’ora arriva l’esito, negativo.

Ma il responso è della famigerata «curva» delle troponine, l’esame «cassativo», quello che non sbaglia, ma ha i suoi tempi. Intanto vado in degenza all’Utic, sono quasi le dieci del mattino, mi attaccano più di dieci sensori e li collegano alla scart del monitor di controllo cardiaco, poi una flebo.

La visita del medico che chiede lumi sull’origine del malessere e prende nota. Nel reparto ci sono tre infermieri per turno e un medico, prestano un servizio e una assistenza che temi di non trovare, (i luoghi comuni e la sfasciume etico spesso lo impongono) garbata mai scomposta.

Lo noti quando si prodigano per risolvere ogni cosa dei più anziani, anche le meno sperate, ma il loro lavoro è questo e lo fanno. Tre giorni in cui non mi sono mai sentito solo un attimo, erano sempre lì, come le sentinelle di Wenstiminster.

Unico neo, una vena «agganciata» male e il braccio un po’ gonfio, ma non è successo all’Utic, là quando l’hanno fatto non capivi nemmeno che era successo.

Un’esperienza risolta per il meglio: alla fine si è trattato di una sindrome vagale, una cosa banale recita anche wikipedia, ricalcando le convinzioni dei medici, che può capitare al più sano di questo mondo, ma che ti ammanta in una paura di piombare nell’inferno di patologie che devi curare e controllare per tutta la vita.

Un’esperienza che mi lascia con la bocca buona per quanto visto all’Utic, e per l’esito, senza fare nomi quello è un vero staff. Mi dicono: riposi per una decina di giorni, ma temo che non li starò a sentire.
Alessandro Sirianni
presidente del Comitato civico degli Ospedali di montagna calabresi
e vicepresidente del Comitato Pro Ospedale del Reventino


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