Sebastiano Barbanti
5 ottobre 2017
Sebastiano Barbanti

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Lettera di Sebastiano Barbanti (seconda puntata): «Occorre squarciare il velo di ignoranza che ammanta il Terzo Settore»


Caro Direttore,
se da un lato è necessario capire fino in fondo e con esattezza certosina la dinamica dei flussi finanziari destinati al Welfare, dall’altro occorre squarciare il velo d’ignoranza che ammanta tuttora il cosiddetto Terzo Settore.

Nella precedente riflessione si è tentato di porre in luce la disorganicità gestionale dei fondi istituzionali (Stato e Regioni) a sostegno delle categorie svantaggiate. In questa sede si cercherà di evidenziare il pantano di criticità cui incorrono gli operatori settoriali.

Partiamo allora dalla legge istitutiva dei Piani territoriali regionali d’area. Si tratta di strumenti innovativi, costruiti secondo una logica di governance multilivello e con un approccio di tipo multisettoriale: sagomati apposta, insomma, per forme strutturali iconicamente coincidenti con le Cooperative.

I Ptra infatti prevedono la partecipazione attiva e continuativa di tutti i soggetti presenti sul territorio durante tutte le fasi di elaborazione del piano, per la condivisione di strategie, obiettivi e azioni.

La condivisione con il mondo sociale, economico, istituzionale e culturale permette di creare piattaforme unitarie efficaci per il raggiungimento di obiettivi comuni, integrando le politiche settoriali regionali per convogliare tutte le energie e le risorse possibili nell’attuazione del piano.

Il punto critico a maggiore (devastante) impatto negativo sia racchiuso nella seguente domanda: perché mai la Regione Calabria ha dimenticato tale strumento? E quindi, perché non ha mai riunito gli operatori settoriali, impegnati in ogni ambito del Welfare sui nostri territori?

È evidente che siamo in presenza di una situazione di grave stagnazione della volontà istituzionale, regionale nel caso specifico, di dar corso a una pianificazione del comparto. È questa la causa di ogni disfunzione economica e operativa che attanaglia il Terzo Settore alle nostre latitudini.

Sicché senza pianificazione nessuno saprà mai, a differenza di quanto accade in altre regioni italiane, né l’esatta misura dei fondi sociali né la loro giusta attrazione distributiva. Allo stesso modo siamo deficitari sul terreno censorio: quanti disabili, quanti tossicodipendenti, quanti indigenti, quanti lungodegenti domiciliarizzati, ad esempio, contano i nostri territori provinciali e comunali?

È sconcertante pensare a quanta disattenzione siamo tuttora in grado di avere nei confronti di una così larga percentuale di popolazione calabrese. Eppure basterebbe uno sforzo tutt’altro che sovrumano. Basterebbe davvero poco, se tutti contribuissimo a questa necessaria, improcrastinabile inversione di rotta.

Basterebbe determinarsi nel convocare, in tempi brevi, tutte le parti sociali: a incominciare dai sindacati, i più completi estensori di ogni anagrafica relativa al mondo del lavoro e alle annesse categorie sociali divise per territorio, ancorché per numero di abitanti.

Dimenticandoci dei bisogni diffusi, abbiamo finito per ignorare il destino di ingenti risorse finanziarie. Ingenti, tuttavia, sino a un certo punto. Sicché potremmo scoprire che i soldi sono tutt’altro che sufficienti.

E dunque, in siffatte condizioni, in cui la prassi consolidata nella gestione pubblica del Terzo Settore è, a dir poco, malata, come possiamo essere certi dell’identità dei soggetti che partecipano al processo di finanziamento del Welfare? Chi è che controlla tutto ciò? Riceve ognuno il ruolo che gli spetta? Sono i fondi destinati in maniera congrua rispetto alle competenze?

Allo stato attuale, ogni risposta è negativa. Si continua a navigare a vista in un oceano di confusione gestionale che, forse fa comodo a qualcuno ma genera una distruttiva reazione a catena non soltanto sul terreno dell’assistenza minima dovuta quanto, in maniera ancora più lesiva, sul piano dello sviluppo sociale.

In un contesto in cui nessuno sa chi deve fare cosa, l’unico volano che sprigiona tutta la sua energia è quello dell’involuzione.

Eppure, dicevamo, ogni scolaretto sa che un fondo pubblico ben governato produce buoni e anche eccellenti frutti. Ogni centesimo destinato al Welfare e speso bene (ovvero canalizzato in misura congrua ed esatta, a beneficio del giusto operatore e con ogni più dettagliata cautela di controllo) può generare profitti non soltanto – e non più – economici ma di concreto ed efficace servizio al cittadino.

I Piani territoriali regionali d’area sono, a ben vedere, un perfetto sistema di progettazione d’impresa partecipata, laddove il sostegno pubblico eroga forze finanziarie in grado di rendere straordinariamente indipendenti, in un breve lasso di tempo, ogni consorzio umano organizzato in cooperativa.

Ciò significherebbe non solo dare attuazione conforme e piena alla legge dello Stato ma, aspetto più radicalmente importante, dare linfa a ogni impresa sociale degna di tale ruolo: si trattasse di un’associazione di volontariato oppure di una Cooperativa.

Sarebbero infatti di questo tipo i due istituti privati che, naturalmente, si occuperebbero di operare nel sociale con l’unico e comune obiettivo di due risultati: economia attiva e servizi efficienti.

Così, mentre le associazioni opererebbero in regime di chiarezza amministrativa e gestionale, fornendo puntualmente il servizio cui si dichiarano preposte, le cooperative agirebbero da vero e proprio sistema di impresa capace di produrre lucro a beneficio di una sempre più larga fascia sociale.

In particolar modo, il sistema delle cooperative si costituirebbe come chiave di volta della ripresa sociale sotto il profilo occupazionale, economico, assistenziale: dalla nascita alla morte di ogni individuo, passando per gli stadi della sua sofferenza clinica a ogni evenienza e livello.

La nuova legge dello Stato sulle Cooperative, in vigore, si pensi già da ben 17 anni, ha strutturato nel dettaglio l’impianto di ripresa dell’economia sociale. E se una delle difficoltà è di carattere statutario, può bastare la sottoscrizione di un’intesa volta a diversificare, necessità ormai cogente, la funzione Onlus da quella del lavoro statale tra le diverse cooperative. Ciò servirà anche a evitare che soggetti in malafede trucchino i bilanci.

Le leggi, insomma, regolamentano oramai chiaramente il comparto. Perché mai, dunque, si continua a ignorare un impianto normativo che trasformerebbe, di fatto, il Terzo Settore in fucina della nuova economia?
Sebastiano Barbanti
Deputato Pd


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