Il presidente del Consiglio Matteo Renzi con il ministro per le Riforme e Rapporti col Parlamento Maria Elena Boschi
17 ottobre 2016
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi con il ministro per le Riforme e Rapporti col Parlamento Maria Elena Boschi

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Lo Statuto Albertino? Magari… questa riforma è peggio


Raffaele Papa, con una intelligente provocazione, ha scritto che se passasse la riforma della Costituzione elaborata e promossa dal governo Renzi torneremmo allo Statuto Albertino.

Magari, verrebbe da rispondergli: lo Statuto del 1848, che poi sarebbe diventato la prima Costituzione italiana, era piuttosto «avanti» rispetto ai tempi in cui fu emanato. L’alternativa a queste carte, allora, era l’assolutismo. Che andava bene quando era «illuminato», come nei casi della Prussia, degli Asburgo o, per restare alla Penisola, di don Carlos di Borbone (peccato che gli eredi non siano stati manco l’ombra del capostipite).

Il resto lasciava a desiderare non poco, anche per popolazioni in cui l’analfabetismo e il rapporto quasi superstizioso con la religione era la norma.

Lo Statuto, è giusto richiamare il concetto alla memoria dei giuristi che ancora ne coltivano una, era un esempio di quelle che i manuali definiscono «costituzioni ottriate», cioè «concesse» dal sovrano, che si autolimitava per far spazio alle forze sociali che premevano per emergere o per riprendersi spazi politici. Cioè la borghesia e i nobili. Ciò spiega il fatto che poteva candidarsi chi aveva i quattrini e la cultura e spiega l’esistenza di un Senato di nomina regia.

Dopodiché il re era «lo Stato» e ciò spiega pure le prerogative della Corona, che poteva fare e disfare in parecchi settori: dalla magistratura – che era «terzo potere» solo sulla carta, visto che i magistrati facevano parte del potere esecutivo – alla pubblica amministrazione e, ovviamente, all’esercito (il titolo di re era un titolo militare ancorché araldico, non dimentichiamolo).

Era una Costituzione mica male per quei tempi, visto che prevedeva il rapporto di fiducia con il Parlamento e sposava in pieno i principi del liberalismo. Anche al prezzo di qualche innovazione terminologica che oggi suona un po’ ridicola: al posto del consueto «suddito» appare l’espressione «regnicolo». Brutta da leggere e sentire, ma un altro bel passo in avanti per quei tempi.

Il paragone con l’Italia di allora è improprio. E ciò fa capire che i problemi sono altri. E, soprattutto, fa capire che la Costituzione che uscirebbe fuori da un’eventuale (e non auspicabile) vittoria del «Sì» sarebbe un mostro.

Ha ragione Papa quando paventa il rischio di involuzioni autoritarie: le maggioranze artificiali assicurate dall’Italicum darebbero al Presidente della Repubblica e al capo del partito vincitore un potere spaventoso: potrebbero fare cose che per molto meno, poco più di vent’anni fa, c’era chi chiedeva la testa di Cossiga, diceva peste e corna di Scalfaro e lanciava strali contro Berlusconi.

Ma il dato allarmante è che questi «superpoteri» non verrebbero dall’investitura popolare, come accadrebbe nel caso di un sistema presidenziale o semipresidenziale, bensì da un banale meccanismo elettorale, già sospettato di incostituzionalità.

Il bicameralismo? In questo caso Renzi e i suoi spin doctor hanno combinato un macello: rispetto a una Camera delle Autonomie, che pare progettata solo per dar fastidio ai deputati, sarebbe stata molto meglio la semplice abolizione. Il resto oscilla tra l’appena accettabile (il ridimensionamento drastico delle autonomie) e il pericoloso (l’aumentato potere legislativo del governo).

Va da sé che i pericoli non toccano solo la sfera della democrazia e della partecipazione. Ma riguardano, soprattutto, gli ambiti delle libertà: un governo che può fare leggi con ampia possibilità che queste siano ratificate a tempi record è un governo potenzialmente liberticida, perché dotato di poteri ampliati e, peggio ancora, della possibilità di abusarne.

La stessa cosa dello Statuto Albertino? Proprio no: allora c’era un re che aveva concesso una costituzione ma aveva conservato quelle prerogative senza le quali un re non sarebbe stato un re; prova ne sia che il voto di sfiducia non era granché praticato neppure in quell’Inghilterra che già all’epoca era il prototipo delle monarchie costituzionali.

Oggi ci sarebbero solo un Presidente e un Premier gonfiati come tacchini e dotati di poteri che neppure un cancelliere sognerebbe.

Il capitolo delle autonomie merita una riflessione a parte: siamo proprio sicuri che oggi l’accentramento sarebbe quel gran male? O, piuttosto, non sarebbe un modo più veloce per collegare le periferie al centro? Non ce ne siamo quasi accorti, storditi come sempre dall’atavico campanilismo che ci portiamo dietro, ma è stato proprio il regime delle autonomie, approvato a inizio millennio ad averci depauperati tutti.

Questo sistema, da cambiare o abolire, ha stoppato il Nord e l’ha esposto ancor più al dumping dell’Est Europa e ha affossato il Sud, perché lo ha reso prigioniero di una classe dirigente che sarebbe da augurare solo a un nemico mortale.

L’Italia attuale fa paura. Quella che deriverebbe dal «Sì» sarebbe peggio.

Restano sul tappeto i problemi di un Paese da riformare con la massima urgenza. Perché è vero che il nostro è un sistema inefficiente, lento e corrotto. Il guaio è che questa, proposta dal premiato duo Renzi & Boschi, è la riforma sbagliata.

Che si voti no: tutti quelli che lo faranno hanno ragioni sacrosante. Ma lo si faccia con la consapevolezza che la riforma, quella vera (che non sarà perfetta, ma un brutto bimbo è preferibile ad un aborto) dev’essere fatta con urgenza. Di più: deve essere pretesa. Altrimenti dovremo considerare il povero Carlo Alberto, in confronto ai troppi cialtroni dell’Italia di oggi, un costituzionalista provetto.
Saverio Paletta
Giornalista


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