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25 ottobre 2016

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Piante sacre di Calabria: la leggenda della vite


L’origine della vite in Calabria si perde davvero nella notte dei tempi, ma furono i coloni Greci che la diffusero e per questo chiamarono la Calabria Enotria, ossia terra del vino.

Da Cirò, con il suo Krimisa che era la bevanda ufficiale degli atleti delle Olimpiadi, a Sibari, dalla valle del Savuto alla piana lametina fino ad Arghillà e Scilla, in Calabria la coltivazione della vite e la produzione del vino assunsero sempre di più importanza, influenzando la storia e lo sviluppo dei nostri territori.

Insieme al fico e all’ulivo, la vite era considerata sacra, fonte di nutrimento, di piacere e di ricchezza e come tale era un dono divino, anello di congiunzione tra sacro e profano, tra terra e cielo. La sacralità della vite e degli antichi e pagani Misteri Eleusini, come sappiamo, è arrivata fino a noi con il Cristianesimo, che fa del vino parte integrante dell’Eucarestia, il «sangue della terra» che rende gli esseri umani in perfetta comunione con Dio.

Un’antica leggenda calabrese racconta che una volta la vite era una bellissima pianta dal fogliame verde e rigoglioso, che però non dava frutto. Un giorno un contadino, preoccupato che la vite facesse troppa ombra alle altre piante, cominciò a tagliarla con furia, lasciandone solo pochi rami spogli.

La vite si mise a piangere disperatamente, non aveva fatto niente di male per subire un trattamento del genere e senza le sue foglie non aveva più ragione di vivere. Un piccolo usignolo, che al tramonto si rifugiava sempre tra le sue fronde, sentì i suoi singhiozzi e la consolò dicendole: «Non piangere più, stanotte canterò per te così tutti sapranno quello che ti è successo».

Al calar del sole, l’usignolo si posò sui poveri rami monchi e lasciò che un canto soave sgorgasse dalla sua tenera ugola. Così fece per dieci notti di seguito finchè l’amore di quel canto arrivò fino al cielo e fu sentito dalle stelle che commosse, si affacciarono sulla terra per guardare la povera pianta mortificata dalla mano dell’uomo e il piccolo uccellino suo amico.

Le stelle piansero e le loro lacrime toccarono la vite, che improvvisamente si sentì fremere in ogni sua fibra e rinvigorita. I nodi dei suoi rami si gonfiarono, le gemme si dischiusero e spuntarono nuovi pampini e verdi viticci che avvolsero come in una carezza le zampette dell’usignolo.

Tutte le lacrime versate si trasformarono in piccoli succosi frutti che al sorgere del sole già pendevano dai rami a grappoli, dorati per la prima luce dell’alba.

L’umile usignolo volò via, promettendo di tornare al tramonto come sempre, e la vite guardandosi si accorse di aver ritrovato il suo antico aspetto ma di non essere più una sterile pianta: dai suoi rami spuntava l’uva, il frutto che possiede la forza delle stelle, la dolcezza del canto dell’usignolo e la luce delle notti d’estate.
Annamaria Persico (già pubblicato su Reportage il 25 ottobre 2016)


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